lunedì 15 novembre 2021

Il mercato coperto


Tornai al mercato coperto di Rimini successivamente al mio secondo trasloco da adulta. Non abitavo più in città da ormai 13 anni e ne sentivo con forza la mancanza, pur essendo distante non più di una quindicina di chilometri ben collegati dalla statale.

Della città adriatica fondata dai veterani italici, che aveva visto le legioni galliche di Cesare seguire fedeli il suo condottiero nella violazione del pomerio, mi mancavano il garbino invernale che scalda l’aria e sconvolge il meteo, le passeggiate domenicali lungo il molo (la “palata”, come lo chiamano i riminesi), la spiaggia ampia e vuota in inverno e il mercato coperto di piazzale Gramsci.

La prima volta che vi andai, avevo pochi anni ed ero in compagnia di mio nonno Alfredo, il gigante buono, che tutti conosceva e salutava poiché aveva lavorato per diversi anni come facchino.

Era un uomo calvo, dalla pancia enorme, con occhi grigioverdi dall’espressione benevola. A me bambina pareva un’enorme roccia su cui arrampicarmi quando si sedeva al desco familiare o sul divano della figlia Patrizia.

Mi portava in giro con il suo triciclo Ape, sul quale caricava anche cassette di frutta, verdura e pesce per la famiglia. Spesso venivo caricata nel cassone posteriore anch’io, in mezzo a cassette e borse, con mia grande gioia. Dell’infanzia, uno dei ricordi più belli è il giro del quartiere sull’Ape scoperta del gigante: in compagnia di mio cugino Roberto, compagno di monellerie e scherzi, mi sentivo adulta e invincibile. La velocità ci eccitava, il guardare il mondo dall’alto, i bambini che ci seguivano con invidia e divertimento, l’odore di benzina che trovavo inebriante.

Con l’Ape andavamo anche a far spese al mercato coperto.

Appena varcata la soglia di quel tempio affollato di merci e genti, mi assaliva l’odore pungente ma non del tutto sgradevole del pescato del giorno, insieme al brusio della folla sormontato da qualche richiamo dei venditori.

Le piramidi di mele, arance e cavolfiori ben ordinati e dai colori pieni e sgargianti avevano su di me un effetto quasi ipnotico. L’odore del pane mi attirava e deliziava, quello dei formaggi stagionati era invece repellente e disgustoso, odore di grotta di ciclope, antico e selvatico; per me bambina, insopportabile.

Mio nonno il gigante rideva delle mie espressioni buffe e nauseate, di quelle sorprese e terrorizzate davanti a certi mostri dei fondali, che mi affascinavano e inquietavano allo stesso tempo: triglie, scorfani, code di rospo, razze, mi fissavano dai banchi con la rigidità della morte e l’occhio lucido e immobile da veggente, mostrando squame, pinne, code luccicanti. I tentacoli delle seppie e dei polipi sembravano sfiorarmi con il loro oscuro e viscido mistero, messaggeri dell’ignoto, che apparivano anche nei miei sogni notturni: mostri marini, creature giganti che mi imprigionavano e inghiottivano, avventure sui fondali dove rischiavo il soffocamento per l’apnea prolungata, interrotta nell’attimo fatale dal gigante, che mi trascinava verso l’alto per i capelli. 

Le visite al tempio si concludevano immancabilmente con un’offerta votiva al dio Bacco, in cui il gigante volentieri indugiava, seduto a gambe larghe su una seggiolina del bar, che a malapena sosteneva il suo corpo. Un bicchiere di vino per concludere la mattina con la nipote, prima del pranzo, prima di tornare alla famiglia: gesto di intimità e complicità al quale partecipavo con rassegnato sacrificio, inghiottendo tutto d’un fiato un enorme  sorso d’acqua macchiata da due gocce di vino rosso, per compiacere il gigante, per partecipare al rito, mio malgrado. 

Nonostante l’affetto per il gigante, ancora oggi, ritornata alla mia città natale, varco la soglia del tempio, ne assaporo odori, suoni, colori e ricordi con voluttà, ma non riesco a farmi piacere il Sangiovese, antico ed indiscusso simbolo di Romagna.

L. B.


Ancora di salvezza
Era settembre. Faceva ancora molto caldo. Il sole era alto nel cielo, spendeva in modo tale da escludere completamente ogni traccia di pioggia. Ero insieme alla mia "ancora di salvezza". Eravamo in un campo di grano, in torno a noi non c'era niente, si sentivano solo gli schiamazzi degli uccelli  in cielo che arrivavano a noi per andare ancora più lontano in quel loro viaggio verso la vita. Era un giorno come gli altri, era tutto perfetto, ogni cosa al suo posto, come non mai, da oramai troppo tempo. Ero felice, leggera, spensierata, inconsapevole di cosa sarebbe successo da lì a poche ore. Era mattina, ormai giunta l'ora di pranzo quando inizió a scendere qualche goccia, ma rimanemmo lì, non ci faceva paura. Non avevamo paura di niente. Poi la pioggia aumentó, e ancora, e ancora... Apparirono lampi e fulmini in cielo, scese una pioggia torrenziale sopra le nostre teste, violenta e ininterrotta, tanto da non riuscire nemmeno a metterci al riparo. D'un tratto ci ritrovammo sommersi dall'acqua. Il campo era allagato, la terra stracolma da essa ci risucchiava. Ci ritrovammo sempre più distanti e all'improvviso ci perdemmo di vista. Arrivarono i soccorsi. Ritrovarono prima me. Continuarono a cercare per giorni, ma non trovarono alcuna traccia di te, amico mio, come se non fossi mai esistito! Continuavano a dirmi di non preoccuparmi. Con il passare del tempo si iniziò a pensare che mi fossi inventata tutto, che niente di tutto quello che era stato era effettivamente accaduto. Mi ammalai non solo fisicamente, ma anche mentalmente. Mi sentivo nulla, non esistevo più. Iniziai a cercare il colpevole, volevo trovare una spiegazione, perché lo avessero portato via da me, finendo col dare la colpa alla pioggia, quella che ci aveva separato, l'ultima che ci aveva visto insieme. Non mi aspettavo nulla, ma volevo avere una risposta.
Rimase solo una canzone di noi, la nostra. La ascoltai ripetutamente fino ad accorgermi che era già tutto scritto in essa, parlava di noi, della nostra amicizia, ma non diceva perché all'improvviso sono arrivati e ti hanno portato via da me. Tu rimarrai per sempre la mia "ancora di salvezza" e spero, un giorno, di poterti ritrovare. 

M. D. 

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