martedì 16 novembre 2021

Lettori! Per il prossimo incontro del Club ci vedremo lunedì 13 dicembre, alle 15, in Piazza Francesca da Rimini (sperando che questa volta il bel tempo ci assista).

Il testo di cui parleremo è The Thing Around Your Neck, di C. Ngozi Adichie: potete scaricarlo qui

Le storie scelte all'interno della raccolta sono:

  • The Thing Around your Neck
  • The American Embassy
  • The Arrangers Of Marriage
  • The Headstrong Historian
Queste storie sono state scelte per lo sguardo che propongono su temi connessi alla migrazione: cultural differences, culture shock, dislocation, racism, self-awakening, etc.

lunedì 15 novembre 2021

Conversazione in Sicilia: la recensione di Thomas

Conversazione in Sicilia è un celebre romanzo scritto da Elio Vittorini e ambientato durante il ventennio fascista. Dalla lettura emergono innumerevoli personaggi simbolici e figure allegoriche, che in maniera efficace descrivono le incertezze e gli “astratti furori” di quel tempo. Le interpretazioni sono molteplici e non si limitano, perciò, alla chiave di lettura del lettore. Il linguaggio utilizzato è tanto semplice quanto enigmatico: parole e formule ripetute continuamente, se inizialmente permettono al lettore di orientarsi in un variegato prospettivismo, proseguendo con le pagine, rendono i concetti espressi dai personaggi confusi e poco chiari. Tale caratteristica stimola la mente di chi legge, portando di conseguenza al parto di un pensiero personale e soggettivo. Dall’incontro sono sorti differenti aspetti a cui io non avevo minimamente pensato, quindi ho avuto modo di accorgermi quanto le parole possano incentivare l’intelletto delle persone, che non si accontentano di significati vaghi o di messaggi occulti e si sentono obbligati, perciò, a trovare una spiegazione valida. Di certo, non si tratta di una lettura semplice. Ciò nonostante, sicuramente, Silvestro e la sua Sicilia hanno tanto da raccontare.

T. D. B.

 

Le nostre riflessioni... “alla Vittorini”

Il mercato coperto


Tornai al mercato coperto di Rimini successivamente al mio secondo trasloco da adulta. Non abitavo più in città da ormai 13 anni e ne sentivo con forza la mancanza, pur essendo distante non più di una quindicina di chilometri ben collegati dalla statale.

Della città adriatica fondata dai veterani italici, che aveva visto le legioni galliche di Cesare seguire fedeli il suo condottiero nella violazione del pomerio, mi mancavano il garbino invernale che scalda l’aria e sconvolge il meteo, le passeggiate domenicali lungo il molo (la “palata”, come lo chiamano i riminesi), la spiaggia ampia e vuota in inverno e il mercato coperto di piazzale Gramsci.

La prima volta che vi andai, avevo pochi anni ed ero in compagnia di mio nonno Alfredo, il gigante buono, che tutti conosceva e salutava poiché aveva lavorato per diversi anni come facchino.

Era un uomo calvo, dalla pancia enorme, con occhi grigioverdi dall’espressione benevola. A me bambina pareva un’enorme roccia su cui arrampicarmi quando si sedeva al desco familiare o sul divano della figlia Patrizia.

Mi portava in giro con il suo triciclo Ape, sul quale caricava anche cassette di frutta, verdura e pesce per la famiglia. Spesso venivo caricata nel cassone posteriore anch’io, in mezzo a cassette e borse, con mia grande gioia. Dell’infanzia, uno dei ricordi più belli è il giro del quartiere sull’Ape scoperta del gigante: in compagnia di mio cugino Roberto, compagno di monellerie e scherzi, mi sentivo adulta e invincibile. La velocità ci eccitava, il guardare il mondo dall’alto, i bambini che ci seguivano con invidia e divertimento, l’odore di benzina che trovavo inebriante.

Con l’Ape andavamo anche a far spese al mercato coperto.

Appena varcata la soglia di quel tempio affollato di merci e genti, mi assaliva l’odore pungente ma non del tutto sgradevole del pescato del giorno, insieme al brusio della folla sormontato da qualche richiamo dei venditori.

Le piramidi di mele, arance e cavolfiori ben ordinati e dai colori pieni e sgargianti avevano su di me un effetto quasi ipnotico. L’odore del pane mi attirava e deliziava, quello dei formaggi stagionati era invece repellente e disgustoso, odore di grotta di ciclope, antico e selvatico; per me bambina, insopportabile.

Mio nonno il gigante rideva delle mie espressioni buffe e nauseate, di quelle sorprese e terrorizzate davanti a certi mostri dei fondali, che mi affascinavano e inquietavano allo stesso tempo: triglie, scorfani, code di rospo, razze, mi fissavano dai banchi con la rigidità della morte e l’occhio lucido e immobile da veggente, mostrando squame, pinne, code luccicanti. I tentacoli delle seppie e dei polipi sembravano sfiorarmi con il loro oscuro e viscido mistero, messaggeri dell’ignoto, che apparivano anche nei miei sogni notturni: mostri marini, creature giganti che mi imprigionavano e inghiottivano, avventure sui fondali dove rischiavo il soffocamento per l’apnea prolungata, interrotta nell’attimo fatale dal gigante, che mi trascinava verso l’alto per i capelli. 

Le visite al tempio si concludevano immancabilmente con un’offerta votiva al dio Bacco, in cui il gigante volentieri indugiava, seduto a gambe larghe su una seggiolina del bar, che a malapena sosteneva il suo corpo. Un bicchiere di vino per concludere la mattina con la nipote, prima del pranzo, prima di tornare alla famiglia: gesto di intimità e complicità al quale partecipavo con rassegnato sacrificio, inghiottendo tutto d’un fiato un enorme  sorso d’acqua macchiata da due gocce di vino rosso, per compiacere il gigante, per partecipare al rito, mio malgrado. 

Nonostante l’affetto per il gigante, ancora oggi, ritornata alla mia città natale, varco la soglia del tempio, ne assaporo odori, suoni, colori e ricordi con voluttà, ma non riesco a farmi piacere il Sangiovese, antico ed indiscusso simbolo di Romagna.

L. B.


Ancora di salvezza
Era settembre. Faceva ancora molto caldo. Il sole era alto nel cielo, spendeva in modo tale da escludere completamente ogni traccia di pioggia. Ero insieme alla mia "ancora di salvezza". Eravamo in un campo di grano, in torno a noi non c'era niente, si sentivano solo gli schiamazzi degli uccelli  in cielo che arrivavano a noi per andare ancora più lontano in quel loro viaggio verso la vita. Era un giorno come gli altri, era tutto perfetto, ogni cosa al suo posto, come non mai, da oramai troppo tempo. Ero felice, leggera, spensierata, inconsapevole di cosa sarebbe successo da lì a poche ore. Era mattina, ormai giunta l'ora di pranzo quando inizió a scendere qualche goccia, ma rimanemmo lì, non ci faceva paura. Non avevamo paura di niente. Poi la pioggia aumentó, e ancora, e ancora... Apparirono lampi e fulmini in cielo, scese una pioggia torrenziale sopra le nostre teste, violenta e ininterrotta, tanto da non riuscire nemmeno a metterci al riparo. D'un tratto ci ritrovammo sommersi dall'acqua. Il campo era allagato, la terra stracolma da essa ci risucchiava. Ci ritrovammo sempre più distanti e all'improvviso ci perdemmo di vista. Arrivarono i soccorsi. Ritrovarono prima me. Continuarono a cercare per giorni, ma non trovarono alcuna traccia di te, amico mio, come se non fossi mai esistito! Continuavano a dirmi di non preoccuparmi. Con il passare del tempo si iniziò a pensare che mi fossi inventata tutto, che niente di tutto quello che era stato era effettivamente accaduto. Mi ammalai non solo fisicamente, ma anche mentalmente. Mi sentivo nulla, non esistevo più. Iniziai a cercare il colpevole, volevo trovare una spiegazione, perché lo avessero portato via da me, finendo col dare la colpa alla pioggia, quella che ci aveva separato, l'ultima che ci aveva visto insieme. Non mi aspettavo nulla, ma volevo avere una risposta.
Rimase solo una canzone di noi, la nostra. La ascoltai ripetutamente fino ad accorgermi che era già tutto scritto in essa, parlava di noi, della nostra amicizia, ma non diceva perché all'improvviso sono arrivati e ti hanno portato via da me. Tu rimarrai per sempre la mia "ancora di salvezza" e spero, un giorno, di poterti ritrovare. 

M. D. 

CAMPI DI FINOCCHIO

Quel giorno mia madre mi aveva chiesto di accompagnare lei e mio fratello Michele a casa della zia per raccogliere qualche uovo fresco dal pollaio, io avevo scomodamente accettato ma non sapevo che sarebbe potuta risultare poi un'esperienza così ricca. Dico scomodamente perché quel giorno avrei preferito starmene stesa sul letto però mi sentivo in qualche modo attratta da quella terra ormai sconosciuta dove in realtà avevo passato la mia intera infanzia.
Arrivati nella casa ci incamminiamo per la strada che porta agli orti, dove si trova appunto il pollaio. Era una giornata estiva molto calda: dal terreno e dalla scarsità dell'orto si poteva capire che non pioveva da settimane ormai, cosa che in questi tempi non mi sorprende a più di tanto. Guardando distrattamente in giro mi soffermai sulle piante di finocchio, subito un ricordo riaffioró e toccando il braccio di mio fratello dissi:
- te lo ricordi? -
- eh? - rispose lui.
- le piante di finocchio. - dissi io. 
-eh? - ripeté lui. 
-dai, le piante di finocchio, quando giocavamo a nascondino là dentro - feci io. 
-ah... si, ricordo. - disse.
Il suo poco entusiasmo mi fece un po' rattristire, probabilmente non ricordava quei momenti come me.
-magari perché è più grande. - pensai.
Allora continuai:
-quest'anno sono così bassi e spogli, me li ricordavo forti, altissimi e rigogliosi, ricordo che mi coprivano completamente e adoravo nascondermi dentro ad essi. - 
lui rispose sorridendo:
- Eri così piccolina che quando entravi li dentro si faceva fatica a trovarti, infatti vincevi quasi sempre quando si giocava a nascondino. - 
- È vero, ero proprio avvantaggiata!- dissi ridendo. E continuai:
- Quando mi cercavate mi sentivo come un cavaliere che correva al riparo da un gigante, a trovare il primo castello o rifugio che mi avrebbe aiutato, il castello era ovviamente la "tana". - 
Lui mi guardò perplesso e chiese:
-Mi vedevi come un gigante? - 
-Eh, si. - dissi con un sorriso. 
-E la piantagione dei finocchi mi sembrava una selva, sai? - 
-Eh? - chiese lui. 
-Eh, si - dissi io e continuai:
- Quando arrivavo al castello il gioco era finito ed ero solita a salire sul castello e fare un segno di vittoria, con un grido felice.-
Mio fratello disse allora:
-E il gioco era finito, e avevi vinto ancora, e ancora chiedevi di giocare. - 
-chiedevo di giocare di nuovo? - chiesi. 
-Si, tutte le volte che vincevi. Quando perdevi preferivi andare in casa dalla nonna. - 
-Ah, dalla nonna- dissi ridendo. 
-il gioco finiva quando ci chiamava per la cena,e quella mia fuga dal gigante scompariva e tornavo alla realtà. - 
- Gli gnocchi erano quelli che ti facevano tornare alla realtà - disse ridendo. 
-Si, gli gnocchi-feci sorridendo.-
Ad un tratto un urlo lontano che ci chiamava fermò la nostra conversazione, era la mamma che ci stava chiamando per tornare a casa, sicuramente aveva finito di raccogliere le uova. Per un secondo avevo sentito la voce di mia nonna, non quello della mamma, un brivido passò lungo la mia schiena e un dolce sorriso come quello che ricordo della nonna mi si stampó sulle labbra. 
A. V. 


 Ritorno in giardino.

Improvvisamente mi venne in mente quel cortile in cui ora camminavo soltanto quando dovevo uscire di casa ma che una volta era il mio posto preferito, in posto caro e di cui avevo tanti ricordi. 

Ricordi di pomeriggi spensierati, di risate e di corse in bicicletta. 

Se ci pensavo bene vedevo anche i miei vecchi vicini di casa indiani, che erano la mia salvezza quando mio fratello non voleva giocare, con loro potevo sempre divertirmi e sapevo che nonostante tutto anche se litigavamo, avremmo fatto pace qualche ora più tardi. 

Ogni singolo angolo che vedevo mi riaffiorava ricordi e mi sembrava bellissimo. 

Il portico ad esempio così piccolo e confortevole, con la panca che avevo verniciato con mia mamma e la sua vista sul mare che da sempre mi faceva pensare che quello era il luogo più bello del mondo. 

L’Ulivo dove sempre mi arrampicavo e da cui ero anche caduto , ma ora che pensavo a quell’episodio mi faceva sorridere. 

Il vecchio marciapiede di cemento, che pur se rovinato da tutti i suoi anni , aveva il suo fascino ed era perfetto per mettere in fila tutte le mie macchinine per ore ed ore. 

 Era tutto splendido e quasi mi commuoveva vedere quanto così poco mi riempiva di gioia. 


N. M. 

 L’infanzia perduta

Quando avevo sui 7 anni quando uscivo di scuola mi piaceva giocare con altri bambini sulla collinetta davanti all’entrata.

A volte si rideva, a volte si discuteva, a volte addirittura si piangeva( magari per qualche marachella subita nei propri confronti).

Dunque la mia vita a quel punto stava prendendo diciamo una certa forma, ignaro di tutto quello che mi sarebbe accaduto io mi divertivo( a ripensarci mi vengono i brividi)

La mia è stata sempre una giovane madre, che si prende cura di suo figlio, a volte anche troppo, ma comunque sapevo che lo faceva per ragioni morali e mentali perché comunque era ed è ancora suo compito finire di formarmi e di farmi fare quel salto di qualità che spera tanto. Mi ricordo ogni volta che mi veniva a prendere mi chiedeva: “hai fatto arrabbiare la maestra oggi?” Io scherzando le rispondevo sempre: “si ma, secondo te?sono tuo figlio dopotutto”

Ecco, quello era il momento della giornata preferito, parlare con mia madre, perché di lì a poco( nel giro di 2-3 anni) inizierò a staccarmi da lei, ovviamente passando dai 10 ai 14 anni in un battibaleno.

Solo al compimento dei miei 15 anni ho capito che la figura di mia madre fosse fondamentale per il mio benessere, perché dopo tutto la mamma è la mamma.

Ritornando sul posto d’infanzia, recentemente ci sono passato ed ho pure visto una mia vecchia maestra che nel vedermi è quasi caduta dalla sedia!Devo proprio dirlo, la mia vecchia scuola elementare è stato il mio banco di prova e soprattutto dove mi sono divertito di più, perché comunque 5 anni lì dentro non si scordano facilmente.Potrà sembrare banale ma io come posto d’infanzia ho il campo da calcio dietro la scuola, proprio lì ho iniziato a dare i miei primi calci al pallone che mi porterò dietro in ogni occasione( anche sotto la pioggia)

Già dai quei anni le mie maestre erano sicure di due cose

1) diventerò un calciatore professionista

2)Andrò al liceo linguistico e inizierò una gloriosa carriera

La prima non è andata in porto, causa problemi fisici vari quindi mi sono dedicato allo studio, sperando di perseguire fino al conseguimento della laurea in lingue straniere e magari un posto come l'insegnante di lingue.

L. D’A.

 Storia di un gelato

La sera stava appena calandosiin un inverno monotono e freddo, il pesce arrostito in tavola era già stato servito e le vivande erano già state bevute, come ogni mercoledì sera alle 20:30.

La camera era vuota, non ricordavo dove mio fratello fosse andato, forse a giocare col babbo, forse a dormire con la mamma, forse era in bagno. 

Ritrovandomi sul letto un languorino si fece spazio nel mio stomaco. Voglio un gelato’ pensai con la mia testolina sveglia, prima di scendere dal letto a castello e aprire la porta scricchiolante della mia cameretta. 

Neanche il tempo di poter uscire dalla stanza che la mamma era già lì fuori.

“Che fai?”

“Che faccio?”

“Che fai?” 

“Prendo un gelato”

“Un gelato dici?”

“Si, un gelato”

“Il tempo del gelato è finito. Dovevi mangiarlo prima”

“Io lo mangio adesso”

“Il gelato non lo puoi mangiare adesso”

“Perché?”

“Perché?”

“Già, perché?”

“Perché ti avevo detto prima che se lo volevi lo mangiavi insieme a me e al babbo. Adesso non puoi mangiare il gelato”

“Ma a me il gelato va adesso”

“Tona a letto Valentina”

Così tornai a letto con il languorino allo stomaco e gli occhi lucidi. 

Calde lacrime bagnavano il mio morbido viso, ma d’altronde sono questi i capricci che si fanno da giovani, e la mamma che dall’altra parte del muro rideva, osservando e osservando di nuovo quel video di me in lacrime che volevo uno stupido gelato, quello stupido gelato alla vaniglia che la mamma era solita comprare al supermercato solo quando in offerta. 

E lei rideva e rideva, e io piangevo e piangevo, e lei rideva e rideva. 

E la situazione si ripropose esattamente uguale la settimana seguente, e quella dopo ancora, e quella dopo ancora, la mamma con il suo telefono dell’epoca dei dinosauri che faceva il video a me che piangevo, con la faccia tutta rossa e corrucciata, e lei che rideva e rideva. 

“Ma io voglio il gelato, lo voglio andesso” dicevo con le parole interrotte dai singhiozzi, con le parole adatte ad una bambina di quattro anni, con le parole che solo mia mamma poteva capire. 

E lei rideva e rideva.


V. B. 

 Mi stavo muovendo velocemente, le mie gambe non accennavano a fermarsi, anzi, aumentavano la velocità. 

Perché stavo correndo? Qualcuno mi seguiva? Beh sì, c'erano delle persone dietro di me, ma erano distanti, altre persone erano davanti a me, più vicine, stavo per raggiungerle, mi avvicinavo sempre di più a loro.

Ah giusto, una corsa, una gara di corsa campestre, ancora sento il cuore battermi ferocemente nel petto, non mi fa male, mi spinge a correre di più, voglio vincere, posso vincere. Perché voglio vincere? Se arriveró prima vincerò dei soldi? Avrò una qualche agevolazione in qualche campo scolastico? Cosa vinco? Non vinco niente, o niente che io reputi importante. Allora perché corro? C'è un motivo per il quale corro? Perché le persone corrono? Per scappare di solito, o per raggiungere qualcuno o un luogo quando sono in ritardo, ma io non sto correndo per nessuna delle due ragioni, sto partecipando ad una gara. Volevo vincere, ma della gara non mi importava, volevo arrivare prima, ma del podio non mi importava, non c'era nessuno della folla di cui mi importase, non c'era nessuno che stava correndo con me, o comunque nessuno di cui mi importasse. Sconosciuti o conoscenti, in ogni caso per me non sono nessuno, solo persone che corrono come me.

Anche loro non sanno perché corrono? O forse sono l'unica che corre senza un apparente motivo?

Mi é sempre piaciuto correre, eppure quando penso ad una corsa penso ad una fuga, però non ho paura, non sto scappando da nessuno, sto correndo perché voglio arrivare prima, perché voglio essere la migliore. A pensarci bene però, quando si corre da una meta all'altra, ci si avvicina ad un luogo e ci si allontana dall'altro, per andare in una direzione bisogna scappare da un' altra, o comunque allontanarsi e staccarsi da essa.

Chissà perché penso a queste cose mentre corro. Mi risuona in testa "La cavalcata della Valchirie" di Wagner, non la stavo ascoltando in quel momento, forse ce l'avevo in mente? La sto sentendo adesso? Può essere, forse entrambe le affermazioni sono giuste ed errate. Devo andare più veloce, ci sono giusto poco più di cinque persone davanti a me, se ora percorro l'ultimo pezzo alla massima velocità... oh, quella ragazza é arrivata, penso.

S. M. 


Provando a ricordare un momento della mia infanzia per quanto bene possa riuscirci, è come guardare un film avvolto di nebbia. Ogni azione è resa meno nitida dalla nebbia, non perché non riesca a ricordare, bensì perché è come se ci fosse un filtro che nasconda le parti negative. Ricordo quando alla "Fiera della domenica", volendo scegliere un gelato e non riuscendo a vedere i diversi tipi, mi aggrappai al muretto ed iniziai a saltare. Mi ricordo quel muretto del bancone come una montagna insormontabile e i gelati il premio per la mia scalata. E poi ricordo la botta. L'ultimo salto prima dell'impatto dei miei denti con i mattoni del muretto. Ma la cosa incredibile è che non ricordo il dolore. So di averlo provato ma non riesco, per quanto ci provo, a ricordarlo. E poi un flash di immagini, una dietro l'altra, che si susseguono velocemente. Il sangue, la faccia preoccupata di mia madre, il ghiacciolo per diminuire il male.

-Stai bene? - dice mia madre e io col capo che annuisco, mentre scendono le lacrime come fiumi giù per la valle

-Sicura di star bene? - mia madre

-Sì, esce solo un po' di sangue- io

-Non ti preoccupare non è niente - mia madre

-Sicura di stare bene? Siediti dai- richiede mia mamma

-Adesso ti porto un ghiacciolo così ti passa il male. Ma vedi che non è niente. 

A che gusto lo vuoi? - ancora mia madre

-Alla fragola- rispondo io

-Ecco tieni- mia madre 

-Grazie- io

E poi, non ricordo più nulla.

A. P.